Influssi coloniali nella cucina britannica

di Gabriele Paleari, docente alla Nottingham Trent University 

Parlare di cucine ‘nazionali’ è arduo e complesso poiché, per realizzare un piatto, si mescolano ingredienti provenienti da ogni dove. Nel Regno Unito le importazioni dei prodotti agricoli superano di gran lunga le esportazioni. Ed è così da secoli. 

Grazie ai commerci, alle guerre, ai legami dinastici tra Inghilterra e Francia, nonché alle alleanze tra quest’ultima e la Scozia, i prodotti transalpini si sono diffusi Oltremanica. In Inghilterra, con la dominazione normanna (XI - XII sec.) è iniziata una lenta trasformazione; una vera e propria colonizzazione linguistico-culinaria che si è protratta a lungo. Ancor oggi in inglese per indicare la carne di cervo - e in passato per far riferimento anche alle carni di cinghiale e di lepre - si utilizza la parola venison, che corrisponde all’italiano venagione. La selvaggina, come si racconta nelle avventure di Robin Hood, era un cibo per re e aristocratici, non per contadini.

A partire dal XVII secolo, in seguito alla fondazione delle colonie in America e in Asia, si diffusero le derrate e le spezie coloniali. La creazione di colonie britanniche in India ha avuto come riflesso la diffusione di ingredienti nella madrepatria, dove si è creato un crogiolo di gusti e di sapori diversi. 

Ciò detto, prima del XIX secolo, la cucina ‘indiana’ - un’espressione di comodo utilizzata spesso per riferirsi a un’area vasta e disomogenea - era ancora un mistero per gli inglesi; il curry fece la sua comparsa nel menu di un ristorante londinese nel 1773. Poco più tardi alcuni ristoranti alla moda di Piccadilly iniziarono a servire riso e curry. Nel 1809 un imprenditore di nome Sake Dean Mahomed aprì il primo ristorante ‘indiano’ della capitale britannica, che ebbe vita breve. Tuttavia, le cose cambiarono durante il dominio britannico del subcontinente indiano, tra il 1857 e il 1947, che vide la nascita della cosiddetta cucina anglo-indiana, ossia di una cucina che deriva dall’interazione tra le casalinghe britanniche e i loro cuochi indiani.

Ovviamente si parla di casalinghe dei ceti abbienti. Le masse, per ragioni economiche, non potevano permettersi le specialità culinarie coloniali, non essendoci né i supermercati né l’abitudine di andare al ristorante.

La seconda metà del Novecento
Bisognerà, pertanto, aspettare fino alla seconda metà del Novecento prima che certi prodotti alimentari originari delle colonie entrino a far parte della dieta quotidiana di tutti i ceti sociali. È proprio nel periodo in cui si avvia la decolonizzazione e si diffondono i supermercati che si sviluppano nuove usanze. L’evoluzione, in realtà, è stata lenta. Ciò vale anche per quelle specialità che, oggi, sono considerate parte integrante della cucina britannica. Basti pensare al tikka masala, che è un’espressione utilizzata per far riferimento a un piatto di carne, solitamente pollo, cotto in una salsa di spezie miscelate. 

Orbene, si è scritto tanto a proposito e, anche, a sproposito di questo piatto. Nel 2001 l’allora ministro degli esteri britannico, il laburista Robin Cooke, pubblicò, sul quotidiano The Guardian, il testo di un discorso in cui celebrava la britannicità. In quell’occasione Cooke disse che il pollo tikka masala era un vero e proprio piatto nazionale britannico. 

Forse il ministro esagerava; l’espressione tikka masala è piuttosto infrequente nella lingua inglese contemporanea. Sta di fatto che, secondo Cooke, si trattava di un piatto indiano cui i britannici, avvezzi a servire la carne accompagnata da un intingolo, avrebbero aggiunto la salsina. In realtà, il pollo tikka masala, pur influenzato dalla cucina del subcontinente indiano, è originario del Regno Unito o degli Stati Uniti d’America. Per giunta tikka e masala sono prodotti di due culture linguistiche e culinarie diverse. Tikka è una parola hindi, che è una lingua parlata nell’India settentrionale; masala, invece, che sta a indicare una miscela di spezie macinate, mescolate con acqua o aceto per ottenere una pasta, è un termine urdu, che è la lingua ufficiale del Pakistan attuale. 

Ancora sul tikka masala

Il masala ha conquistato cuori e palati britannici. Ne è prova il masala chai, una bevanda preparata unendo latte, acqua e zucchero. Chai, a sua volta, deriva da cha, un termine che, in mandarino, indica il tè. Nonostante l’origine cinese, gli indiani lo hanno accolto nella loro cultura alimentare. Non solo; in India si beve il masala chai, per piacere e per alleviare i sintomi del raffreddore. A testimonianza che i prodotti alimentari sono in costante evoluzione - e che non appartengono a nessuna cultura nazionale - a partire dal Nord America, negli ultimi trent’anni, si è consolidata l’abitudine di prendere il chai latte. In sostanza, si tratta di una bevanda calda simile al masala chai, preparata con tè speziato e latte schiumato.

Oltre al tè, al tikka e al masala vale la pena ricordare un altro piatto, che è entrato nella cucina britannica verso la fine del XVIII secolo: il mulligatawny. La parola mulligatawny è di origine tamil, che è un idioma oggi parlato in alcuni Paesi che si affacciano sull’Oceano indiano. In tamil miḷaku indica il pepe, mentre taṇṇīr è l’acqua. In parole povere si tratta di una zuppa piccante. Gli ingredienti di base del piatto sono curry, curcuma e pepe. Esistono modi diversi per preparare la zuppa. Le versioni odierne sono diverse da quelle ottocentesche, quando i politici e l’arcivescovo di Canterbury, che è la carica più importante della Chiesa d’Inghilterra, erano avvezzi a consumare mulligatawny con la carne di tartaruga. 

Rettili a parte, le influenze coloniali, soprattutto indiane, hanno contribuito a creare una cultura alimentare più sfaccettata che mai. Se in passato si era soliti ridicolizzare la cucina britannica, oggi bisognerebbe riconoscere che il Regno Unito è uno dei Paesi europei in cui si tende a sperimentare di più a tavola. Che poi in inglese manchi una locuzione per dire ‘buon appetito’, poco importa. Bon appétit, sebbene francese, piace ai sudditi di Sua Maestà, con buona pace dei puristi della lingua e della cucina. 


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