Teco Celio, attore
Un sogno che dura
da 47 favolosi anni


di Giuseppe Zois

Dal lungo-Senna nella “Ville Lumière” al lungo-Tevere nella Città Eterna. La vita dell’attore Teco Celio ha questi due poli: 30 anni in Francia – dal 1975 al 2005 – e 17 in Italia. Come suo motto di vita vale l’alfieriano “Volli, sempre volli, fortissimamente volli”. Con cocciutaggine inseguiva fin da bambino, a 5 anni, il sogno di fare l’attore. Ha dovuto remare controcorrente. Comprensibile che in famiglia – la sua di famiglia, quella di un Consigliere federale – non si vedesse proprio di buon occhio l’idea. Il papà era Nello Celio, entrato sotto la Cupola federale il 14 dicembre 1966, un uomo che ha lasciato una marcata impronta, ricordata ancor oggi nella politica svizzera. A Berna, dopo un passaggio al Militare, guidò la Finanza fino a tutto il 1973.
Sicuramente molti lettori saranno curiosi di sapere da dove viene, come e perché, insomma l’origine di quel nome, “Teco”. Che sui taccuini, quelli moderni inclusi, non compare, anche perché non esiste: il vero nome è Francesco. In casa hanno cominciato a chiamarlo Teco – e quello è diventato il suo nome d’arte – così come la sorella Cristina fu familiarmente ribattezzata “Kischi”.
Lui, Teco, era un determinato a oltranza. Non ne voleva sapere di studiare e accumulava insuccessi scolastici per malavoglia dichiarata. Già sulle sponde dell’Aar la sua passione erano i film francesi.
Un mestiere di quelli “classici”, o quasi, però ci vuole per sbarcare il lunario. Fu trovato un compromesso: avrebbe fatto il giornalista, poi avanti a libera scelta. Tra i primi diplomati nella carovana dei mass media all’Università di Friborgo, Teco fece uno stage all’Agenzia Telegrafica Svizzera con Mario Casanova, poi a 23 anni ecco finalmente il grande balzo sotto la Tour Eiffel, alla Scuola di Teatro. 
Con “Les dossiers èclatés” del regista Alain Boudet sarà il decollo di un volo che continua senza soste, tra TV e Settima Arte. Il primo cortometraggio è del 1978: “Liberté sans frontières”, girato a Parigi.  
In 44 anni si è configurata una costellazione di qualcosa come trecento film di ogni foggia. Teco ripete con motivato orgoglio di essere stato il primo “euro” avendo lavorato in Svizzera, Francia, Germania, Italia, Polonia, anche in Ucraina per quattro mesi nel 1996, girando nei panni di un prigioniero il film “La tregua”, tratto dall’omonimo libro-memoria di Primo Levi, con il regista Francesco Rosi.
Un attore sempre in movimento, che appena può fa rotta su Crans Montana, dove si rifugia per ritemprarsi quando ha qualche tregua dai copioni. 

Dal lungosenna
al lungotevere


Teco, puntiamo il radar sulle tappe salienti della tua carriera, avviata al mezzo secolo sotto i riflettori…
Io ho lavorato in Francia fino al 2005: a farmi conoscere dal grande pubblico fu la TV con una serie televisiva molto conosciuta che si chiamava «La Crim’» con picchi oscillanti fra il 30-40% di share. Lì ero comandante di un distretto di polizia con una brigata di agenti anticrimine. Tenni banco per 5 anni: sessanta puntate, una al mese. Ho messo assieme anche una nutrita striscia di telefilm: da “Tender is the night” a “Le tiroir secret”, da “Maria Vandamme”, “Le Lycée” dove io, con i miei disastri scolastici mi ritrovo a fare il preside (Eugène), in un liceo difficile, nella “banlieu” di Parigi. Il destino a volte mischia proprio bene le carte.

I ruoli che senti più congeniali?
Ho sempre preferito e quindi voluto assumere quelli comici. Il film che mi ha lanciato è stato “Benvenuti al Sud” con Claudio Bisio. Avevo un piccolo ruolo, credo di aver girato per un paio di giorni soltanto, avendo in cambio una grande visibilità. Molti ancora oggi mi fermano per strada e mi riconoscono per quella partecipazione. Naturale esserci anche in “Benvenuti al Nord”.  Da lì via ho lavorato con Comencini, 4 film con Gianni Zanasi, “Habemus Papam”, 2 con Nanni Moretti, “Pinocchio” con Matteo Garrone che mi scelse per il ruolo del Giudice Gorilla. Nel cast c’era lo spumeggiante Roberto Benigni Geppetto. 

Grazie a Sky, molta fama ti è venuta nel 2013 e per 3 anni con “1992”, la ricostruzione televisiva di uomini e storie di “Mani pulite”… 
Mi viene molto facile calarmi in qualcuno che odio e lì facevo la parte di un corrotto, detestabile, l’esatto opposto di un politico quale lo spagnolo Zapatero che è uno dei miei miti, come il leader russo dell’opposizione a Putin, Navalny, cacciato in galera. Ci do dentro nel mettere in cattiva luce i prepotenti di ogni generazione e specie.

Cuoco con Polanski
poi sul set con Moretti


Quali sono i registi che più ti hanno appassionato e arricchito di esperienza?
Li elenco in ordine sparso, come mi vengono in mente: Francesco Rosi, Krzysztof Kieslowski, Nanni Moretti, Matteo Garrone, Giuseppe Bertolucci, Marco Pontecorvo, Carlo Vanzina, Silvio Soldini… Tutti mi hanno dato e insegnato qualcosa. Ora da fine marzo sto lavorando con Roman Polanski nel film “The Palace”, storia ambientata in un hotel di lusso, precisamente al Palace di Gstaadt. Io sarò il cuoco dell’hotel, il grande chef. Poi in estate sarò sul set con Nanni Moretti per il suo nuovo film, titolo ancora top secret. 

E nel campo di attrici e attori con i quali hai lavorato? Qualche nome fra i tanti…
Il mio amico fraterno Giuseppe Battiston (“Finché c’è prosecco, c’è speranza”), Elio Giordano (“Troppa grazia”), Claudia Pandolfi e Paola Cortellesi (“Ma cosa ci dice il cervello”), Margherita Buy (“Giorni e nuvole”), Sonia Bergamasco (“L’amore probabilmente”) … Ma ci vorrebbe la memoria di Pico della Mirandola per ricordare decine di film.

Torni nel Ticino anche per lavori davanti alle telecamere. Ci sei stato di recente e hai già in calendario altri impegni…
Sì, ho fatto il film “Papaya” con Riccardo Bernasconi e Francesca Reverdito. Nelle prime due settimane di ottobre avrò un lavoro per la RSI, intitolato “Fait Club”, dove “Fait” sta per Faido, una storia di un gruppo di sbandati che si mettono a giocare a curling, con regia di Ivan della Chiesa. Sono orgoglioso di aver vinto nel 2015 il Premio Cinema Ticino al Festival del Film di Locarno.

Secondo te, quanto possono essere terapeutici cinema, teatro, musica in un tempo di “cigni neri” come questo, pesantemente segnato dal covid poi dalla guerra in Ucraina?
Servono senz’altro a evadere da queste orribili realtà. Negli ultimi tre anni è stata una catastrofe dopo l’altra. Ho degli amici che mi sensibilizzano su questo inquietante presente-futuro. Pensiamo a guerre, violenze inaudite, fame, razzismo, clima… Ho visto dei film sulla plastica negli oceani, una superficie tre volte grande la Svizzera. È come se bruciassimo la nostra casa. Cataclismi surreali, molti dei quali ci lasciano perfettamente indifferenti.

Ridere è un antidoto alla tristezza e alla depressione?
Certamente, ma non dimentico che io faccio parte dei clown e, quando non c’è lo spettacolo, siamo persone tristi, perché ci rendiamo conto del gran piangere che servirebbe per tutti i problemi che la storia continua a sciorinarci. Altro che storia maestra di vita… Dobbiamo cogliere qualsiasi occasione per un pizzico di ottimismo, una gioia semplice, un sorriso, un motivo comunque di speranza.

 

Un papà favoloso
libero dalla politica

Che ricordi hai di tuo padre Nello e di tua mamma Gisèle?

Ho un ricordo favoloso di mio padre Nello, quando era libero dagli imperativi della politica. Lo vedevo imitar qualcuno, e mi faceva ridere. Sapeva essere allegro e lo adoravo quando si lasciava andare a barzellette. Si appassionava nel raccontare storie di paese, del suo Faido o della vecchia Leventina. A me piaceva anche vederlo tornare spensierato dopo qualche bevuta con gli amici, o quando faceva la cucina o quando si metteva a tavola e tagliava i formaggini a fette… Insomma, il papà della quotidianità. Sono fiero di mio papà: Consigliere di Stato nel Ticino, poi Consigliere nazionale e federale a Berna, diventato Presidente della Confederazione. So cos’ha fatto in politica, per esempio le centrali elettriche per le quali era stato anche criticato, poi la riforma finanziaria che non ha funzionato. Voleva lasciare il Consiglio Federale, ma dovette rimandare di un anno… Mia madre era l’artista di famiglia, originaria dei Pirenei, creativa, laboriosa, paziente. È morta quattro anni fa, viveva con me qui allo chalet di Crans. Ho buona coscienza e provo consolazione e gioia al pensiero di essere stato molto vicino ai miei genitori negli ultimi anni. Li ho accompagnati serenamente verso la fine. 

Della Leventina cosa ti porti dentro?
Quando abitavamo nel Ticino e poi a Berna, andavamo dalla nonna Margherita e da zia Carlotta, che avevano casa proprio dietro l’Hotel Milano a Faido. Ogni volta erano calde rimpatriate affettive, cariche di ricordi, di vita semplice e di sincerità.

A quasi 70 anni come ti senti?
Acciacchi della schiena a parte, sto bene. Non amo fare grandi citazioni, ma una di Oscar Wilde me la concedo: “Quando si comincia ad andare in là con gli anni, il problema non è l’anzianità… Il problema è sentirsi giovani”. È un po’ il mio motto e mi dico, Teco smettila di guardare le curve delle ventenni, potresti essere il loro nonno.

Un messaggino finale sul tuo mondo. Come lo trovi, dopo oltre 40 anni che ne fai parte? 
Ci sono quelli che sono fatti per fare cinema e quelli che sono fatti per far finta di fare cinema. L’importante è saper distinguere con chi si ha a che fare. Tre quarti di questo mondo sono solo atteggiamenti.

Se dovessi fare il tuo autoritratto, come ti definiresti in quattro pennellate?
Un turista della vita che ha avuto fortuna, facendo l’unico mestiere che sapeva fare. 


L’ATTORE DALLA SCENA AI FORNELLI
Piatti preferiti: pasta
risotto e grigliate


Oltre a fare il “grande chef” nel film con Polanski, godi meritata fama anche come buongustaio…
Il mio è un combattimento a vita. Ero in sovrappeso, adesso, grazie anche alla pandemia e alle uscite ridotte, nell’ultimo anno e mezzo ho perso venti chili. Quando giro a Roma, è una cosa pazzesca, perché la cucina italiana è una tentazione continua ed è difficile resistervi. Si mangia e si beve oltremisura. Come dice il mio amico fraterno Battiston, noi a tavola non facciamo prigionieri. Ogni tanto, con l’avanzare degli anni, cerco di riconciliarmi con la bilancia…

Mestiere d’attore e corretta alimentazione non vanno troppo d’accordo…
Se devi registrare, vengono a prenderti in albergo alle 6.30 del mattino e ti riportano a casa alle 8 di sera. Di solito i cestini del pranzo non sono propriamente appetitosi, per cui salti tutto; ma sera ti rifai con gli interessi. Al ristorante si stappa e “se magna”. Mi piace molto il sushi, però non amo il pesce cotto e nei miei gusti non rientra nemmeno l’agnello. 

Piatti preferiti in assoluto?
Risotto, pasta e grigliate. Il risotto era già la specialità di mio padre. Non ho preso le sue capacità politiche, ma competo alla pari nel fare il risotto, in diverse versioni, con i funghi, con lo zafferano, ma ora lo digerisco poco, oppure quaresimalmente in bianco... Mi considero bravo. Largheggio con abbondanza di burro e formaggio. Se ripiego su verdura e simili, è perché devo dimagrire. Per me, mangiar verdura è come quando a un automobilista tolgono la patente. Come ci si può mettere a tavola con un piatto di verza? Portami prima delle belle tagliatelle con sugo d’anatra, poi una costata con patate e denti di leone come insalata. Questo per me è mangiar bene…

Leventina nel cuore

Nato a Sorengo il 17 ottobre 1952, Teco ha abitato con la famiglia a Bellinzona fino al 1959, anno in cui il papà ha lasciato il Consiglio di Stato, trasferendosi a Lugano. Entrato in Consiglio Nazionale nel 1963, nel 1966 fu eletto in Consiglio Federale e la famiglia si trasferì nel 1967 a Berna. 
L’attore sente un legame molto profondo con la Valle delle sue radici, la Leventina, in particolare con Faido-Fusnengo, Quinto e naturalmente Bellinzona e Lugano, città dove ha vissuto. 
Teco ha una sorella più giovane, Cristina, che lavora nella ristorazione e abita a Zurigo. Il papà, morto il 29 dicembre 1995, riposa nella tomba di famiglia a Chiggiogna con la mamma, Gisèle, mancata 4 anni fa.

 

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